Helenio Herrera è stato un innovatore è questo è risaputo. Una sorta di Mourinho ante litteram per il suo modo di intendere il calcio.
Ma non si parla esclusivamente di aspetto tattico, o di tutto quello che può succedere in un campo di calcio. Anzi, la cosa che accomuna i due unici allenatori dell’Inter ad aver alzato la Coppa dei Campioni (o Champions League nel caso del potoghese) è tutta la gestione di quello che sta fuori al rettangolo verde. L’egemonia della comunicazione, della psicologia applicata al calcio.
Herrera era Mourinho 40 anni prima
Abituati come siamo a leggere tutto con la lente dell’attualità, viene davvero spontaneo affiancare i due maghi della panchina nerazzurra.
Proprio per questa loro propensione a fare della comunicazione e della psicologia la parte fondamentale su cui edificare le vittorie. Questa loro spavalderia davanti ai microfoni, talvolta scambiata per fastidiosa arroganza.
Ma Herrera l’ha fatto con 40 anni di anticipo, e quando nessuno parlava di comunicazione, inventandosi praticamente una metodologia di lavoro tutta nuova. Come Mourinho ha capito il valore delle emozioni, Herrera, alcuni decenni prima, ha intuito che la testa dei giocatori poteva svolgere un ruolo decisivo nei risultati, e lui da fine psicologo la modellava maneggiando la comunicazione come fa un chirurgo col bisturi.
Sarà per questo che la vedova del mago, la signora Fiora Gandolfi, ha certificato il parallelismo tra i due, spedendo in regalo a Mou, il libretto che racchiude tutta l’essenza delle riflessioni calcistiche di Helenio Herrera, gelosamente custodito fino a quel momento. E ovviamente non poteva che accadere nell’anno del triplete nerazzurro.
Le frasi di Herrera
Herrera arriva all’inter dopo aver spodestato il Real Madrid dal trono di campione di Spagna con il suo Barcellona sapientemente giostrato a centrocampo dal genio calcistico di Luisito Suarez.
Il mister viene chiamato al capezzale di una squadra che viene da stagioni altalenanti, senza l’ombra di vittorie, e il sempre più esasperato presidente Angelo Moratti non bada a spese per portare sulla panchina dell’Inter questo allenatore che sembra una specie di stregone.
Arriva anche Suarez, fresco pallone d’oro, ma a colpire maggiormente il pubblico degli appassionati sono i metodi del nuovo mister. Definirli poco ortodossi per l’epoca è addirittura riduttivo.
Herrera inizia a tappezzare lo spogliatoio di cartelli con scritte motivazionali, una cosa che non si era mai vista prima.
Le sue massime sono entrate nella leggenda del calcio e dell’Inter in particolare.
Qui sotto un esempio pratico di questa metodologia: classe + preparazione atletica + intelligenza = scudetto.
E come dare torto al mago. Mazzola, uno dei suoi figli calcistici prediletti, in più di un’occasione ha dichiarato che Herrera allenava prima la testa dei giocatori e poi le gambe.
La psicologia applicata al calcio
La testa infatti era la componente fondamentale, la base su cui è stata edificata la grande Inter degli anni 60′ che ha dominato l’Europa e il mondo. Una squadra che prima di tante altre ha elevato la mentalità vincente a marchio di fabbrica unico ed inimitabile. Herrera sotto questo aspetto è stato fondamentale. Costruiva questa forza pretendendo prima di tutto professionalità dai suoi giocatori.
Dieta ferrea e preparazione fisica eccellente erano gli ingredienti per far in modo che la testa dei calciatori rendesse al massimo in partita. E la sua Inter era la somma di quel cartello appeso negli spogliatoi.
Classe
Qualità che comunque abbondava nella grande Inter del mago. E che partiva da una difesa guidata dal capitano Armando Picchi, riadattato libero proprio da Herrera. La classe in quella magnifica squadra aveva anche la faccia giovane e lo spunto irrefrenabile di Sandrino Mazzola, che da semplice figlio del grande Valentino, sotto la guida del mago si trasformerà in uno dei primi esempi di mezzapunta moderna, in grado di fare da raccordo con il centrocampo ma anche di colpire in attacco. E poi Mariolino Corso. Un tipo di giocatore inviso ad Herrera per la scarsa propensione al sacrificio ma che in termini di classe pura non aveva rivali in quella squadra e anche al di fuori dei confini nazionali.
Preparazione atletica
Nulla poteva prescindere dalla preparazione atletica. Il mago sosteneva che senza quella nessuna vittoria potesse arrivare. E nella sua grande Inter l’atleta per antonomasia era Giacinto Facchetti, terzino avanti di almeno 30 anni rispetto agli altri. Probabilmente il primo fluidificante della storia, con molti gol nelle gambe, ed un fisico che sarebbe stato eccezionale anche per il calcio anni 90. Oltre a lui la preparazione fisica era anche incarnata dai due esterni di centrocampo Jair e Domenghini. La pantera brasiliana era la fionda perfetta per il gioco di rimessa attuato dalla grande Inter, una potenza e una velocità semplicemente irreali per il calcio dell’epoca.
Mentre l’esterno bergamasco era la faccia della fatica e della corsa instancabile, un divoratore di chilometri sul rettangolo verde come se ne sono visti pochi nella storia del calcio italiano.
Intelligenza
Essere intelligenti, reattivi e capire il gioco meglio di tutti. Questo serviva al mago, anche per nascondere uno dei suoi pochi difetti da allenatore, cioè quello di non riuscire a leggere le partite in corso d’opera in maniera del tutto brillante. Il necessario fosforo in quella squadra lo metteva Luisito Suarez, fido scudiero del mago già ai tempi di Barcellona. Cervello fino, piede educato, e velocità di pensiero a sopperire quella di gamba. Suarez è stato uno dei centrocampisti più grandi della storia del calcio, e il motore di quella clamorosa squadra. Ma non era da sottovalutare l’intelligenza, unita ad un fisico da corazzieri che mettevano in campo Tarcisio Burgnich e Aristide Guarneri, abili equilibratori di una difesa che doveva sopperire alle scorribande di Facchetti.
Chi non ha dato tutto non ha dato niente
La massima più famosa appesa nello spogliatoio nerazzurro di quell’epoca era proprio “chi non ha dato tutto non ha dato niente”
E la dice lunga sull’idea di calcio di Helenio Herrera. Acca Acca, come l’aveva soprannominato Brera, metteva il sacrificio sopra ogni cosa. Per lui, vissuto in povertà da bambino e sempre con una vita rocambolesca e precaria da giovane, quella era l’unica strada per arrivare al risultato. Unica eccezione nella sua macchina perfetta in nerazzurro era Corso, che però godeva dell’immunità presidenziale (facile parallelismo con il Recoba di Massimo Moratti).
Dare tutto sul campo era per prima cosa un segno di rispetto verso l’allenatore, poi verso i compagni. Chi si sottraeva da quella regola era un traditore, e non aveva alla fine dato nulla in campo. Ma Herrera, abituato ad allenare la testa prima delle gambe, sapeva che i suoi ragazzi avrebbero lasciato tutto quello che avevano su quel rettangolo verde. E lo avrebbero fatto per lui.