Nella storia dello sport, nella maggior parte dei casi, ci ricordiamo di ogni sportivo vincente per l’importanza e il prestigio dei suoi risultati, oltre magari alla tecnica e alla bravura.
Ci ricordiamo di Micheal Jordan per la sua forza e i suoi titoli nella pallacanestro, pensiamo a Roger Federer per tutte le sue vittorie, pensiamo a Usain Bolt e a tutti i suoi record su pista… e via dicendo.
Ci sono però degli atleti che sono rimasti nella storia dello sport non solo per le proprie vittorie, ma anche magari perché hanno significato qualcosa di più di un mero risultato sportivo.
E’ il caso di Jesse Owens alle olimpiadi di Berlino.
Le olimpiadi del reich
Da sempre le olimpiadi sono un evento memorabile. Non solo per le gare e gli atleti, ma anche e soprattutto per il paese che le ospita. I mesi antecedenti la manifestazione fungono da vera e propria “vetrina” per il paese che ha organizzato la manifestazione. Se tutto fila liscio, per la nazione è una sorta di celebrazione, non solo sportiva, ma anche politica. Le olimpiadi fungono da pubblicità per lo Stato, che deve mettere in evidenza la propria capacità organizzativa; e quando il paese ospitante è un regime dittatoriale in cerca di legittimazione, le olimpiadi diventano una importante occasione
E’ il caso della Germania , nel 1936.
Come tutti sappiamo, Adolf Hitler ricevette il potere nel 1933, e si trovò a dover gestire la decisione del CIO di due anni prima di svolgere le Olimpiadi a Berlino nel 1936, presa quando la Germania era ancora quella di Weimar, libera e democratica.
Inizialmente, per Hitler questa era poco più di una scocciatura: di certo non voleva far passare il messaggio che la Germania fosse una nazione pacifica, piena di turisti stranieri per settimane e impegnata a dover sostenere costi enormi per questioni sportive.
Poi però, il ministro della propaganda Goebbels gli fece cambiare idea, e si convinse che non vi era occasione migliore per mostrare al mondo quale macchina organizzativa fosse la Germania e quali fossero gli invincibili atleti ariani che la sua generazione stava forgiando. Pertanto, il fuhrer decise di concentrarsi su Berlino e sull’organizzazione dei Giochi.
Furono infatti immense le spese sostenute per gli stadi e gli impianti, per dare alla Germania un biglietto da visita straordinario agli occhi del mondo. A testimonianza di tutto questo rimane a tutt’oggi il film di Berlino 36, l’immortale capolavoro documentaristico di Leni Riefenstahl, non un semplice film sulle Olimpiadi ma uno spaccato dettagliato e innovativo su come il regime tedesco intendeva veicolare la sua potenza al mondo intero.
L’attesa era tanta dunque, e gli atleti tedeschi ricevettero l’ordine di vincere tutte le medaglie d’oro.
Jesse Owens
James Cleveland Owens era un ragazzo poverissimo nato nei primi anni del ‘900 in Alabama. La sua famiglia discese da alcuni schiavi africani e il padre era un modestissimo mezzadro. Prenderà curiosamente il nome “Jesse” una volta trasferito a Cleveland con i genitori, perché una volta entrato in classe pronunciò correttamente il suo nome “J.C. Owens”, ma la maestra capì “Jesse Owens”, compilando quindi i suoi documenti e dandogli di fatto quello che sarà per sempre il suo nuovo nome.
Come molti ragazzi di quella generazione, Owens non avrebbe avuto alcuna possibilità di emergere dalle difficoltà. Se non fosse che un giorno con la scuola sbaragliò gli avversari in una piccola gara di atletica, correndo in modo stupefacente. Il ragazzo aveva infatti delle doti straordinarie nelle gare di corsa, pertanto da lì a poco non gli mancarono le occasioni per rimettersi in pista, complice anche l’interessamento della Ohio State University, che lo assoldò volentieri per la sua squadra di atletica.
Nei primi anni ’30, Owens divenne già uno dei velocisti più forti al mondo, avendo infatti già fissato alcuni record mondiali di velocità, in particolare nei 100 e 200 metri, candidandosi ad un posto in prima fila per le imminenti Olimpiadi di Berlino.
Problema fu che negli Stati Uniti il partito del boicottaggio olimpico avesse una certa rilevanza; molti infatti avrebbero voluto impedire agli USA il gareggiare nella nascente Germania nazista; Roosvelt tentennò infatti per qualche settimana ma alla fine accettò di partecipare e Owens partì per Berlino.
Berlino 1936
Il primo agosto del 1936 si tenne una maestosa, pachidermica, fastosa cerimonia di apertura nello Stadio Olimpico di Berlino, davanti ad Hitler e ai suoi gerarchi, in prima fila per mostrare al mondo la superiorità della razza ariana e tedesca.
In un clima estremamente ostile nei confronti degli atleti di colore, Owens corse la prima batteria dei 100 in 10.4 , segnando il record del mondo. Nel pomeriggio, abbassò ancora il record, e in breve, vinse sia la medaglia d’oro dei 100 metri che quella dei 200, cominciando a suscitare grande imbarazzo e nervosismo nelle alte sfere naziste, che vissero l’umiliazione di vedere i propri ragazzi battuti addirittura da un “negro”, come lo chiamavano loro. Vinse pure la staffetta 4×100, ma il vero capolavoro avvenne nel salto in lungo.
Il miglior atleta tedesco nel salto in lungo era un certo Luz Long, di Lipsia, tutt’altro che nazista. Anzi: è passato alla storia per essere stato il primo a stupirsi sinceramente delle capacità atletiche di Owens, tanto che fu proprio lui, dopo che l’americano segnò due salti nulli nelle prime due occasioni, a suggerirgli di staccare trenta centimetri prima dell’inizio della pedana.
Owens ringraziò e mise in pratica il suggerimento, vincendo così il suo quarto oro, davanti ad un Hitler a questo punto furente.
La leggenda vuole che Hitler si sia rifiutato di stringere la mano al ragazzo di colore, in realtà il saluto c’è stato seppur da lontano, dato che il fuhrer decise di abbandonare lo stadio prima dell’ennesima umiliante premiazione dell’afroamericano con tanto di inno statunitense.
Al ritorno in patria, Owens venne giustamente accolto come un eroe, ma amaramente solo dalla comunità afro americana. Purtroppo la scalata all’uguaglianza tra razze era ancora impervia, infatti furono numerosi i problemi che dovette affrontare di lì in avanti (su tutte, la difficoltà di percorrere una carriera normale). Addirittura, Roosvelt non trovò mai un momento per conoscerlo e ringraziarlo. Tant’è che Owens, un giorno, disse una frase che rimase famosa: “guarda un po’, Hitler mi ha salutato e Roosvelt no”.
Ma la storia, lei sì, l’aveva già inequivocabilmente accolto come un eroe dello sport.